L'eleganza del riccio

 A volte capita di avvicinarsi ad un libro con un’idea preconcetta di quale potrà essere il suo valore; inauguriamo la lettura provando a spogliarci di quella diffidenza consolidata da numerosi disinganni subiti in qualità di fedele lettore: si tratta di un’attività di demolizione di una sovrastruttura che abbiamo edificato a base di informazioni, copiosamente divulgate dai mezzi di propaganda, che poi abbiamo amalgamato alle sensazioni che le notizie sull’autore, sul suo background, sul genere del libro e via dicendo, hanno suscitato in noi.

Ebbene anch’io sono vittima di tal meccanismo. Ne sono vittima a tal punto che, sebbene sporadicamente, mi ritrovo a scartare a priori un libro per il solo fatto di essere un bestseller. Nel caso dell’ “Eleganza del riccio” sono lieto di essermi ribellato a questa logica perversa.


Devo confessare che sapere che l’autrice Muriel Barbery fosse una docente e per di più di filosofia ha costituito il fattore determinante per l’acquisto.
Si tratta di un romanzo in cui le due protagoniste principali sopravvivono in un universo in cui tutti gli altri recitano la propria vita. Renée, donna di mezza età, portinaia di un lussuoso palazzo e Paloma, precoce dodicenne figlia di un deputato, condividono inconsapevolmente lo stesso destino. Due intelletti rari, due sensibilità autentiche che malsopportano l’ostentazione, la volgarità  e le etichette sociali. Vittime del caos della contemporaneità, dove il senso del reale cede all’esaltazione della forma, dove un’élite borghese rivendica l’appannaggio della cultura e dell’arte e seguita a stuprarle e snaturarle ogni qualvolta se ne presenti l’occasione, le due donne cercano rifugio nella loro solitudine, riscaldata da tiepide letture e fumanti tazze di tè al gelsomino.


L’autrice usa un linguaggio forbito, sfumato da un tono irriverente, quasi canzonatorio, rispondendo così, fedelmente, ai canoni delle personalità dei personaggi che tessono la trama attraverso la quotidianità delle loro azioni e dei loro vizi. 
Il proscenio di questa tragicommedia è il palazzo, un condominio lussuosissimo composto da appartementi enormi e vuoti, in ognuno dei quali ogni famiglia celebra singolari patologie latenti. “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” cita Renée, rievocando l’amato Tolstoj: è proprio l’infelicità il sentimento che pervade l’atmosfera di questo romanzo; l’intelligenza, l’onestà intellettuale e l’empatia sembrano costituire le premesse sfortunate di una vita vissuta all'ombra dell'incomprensione e dell’emarginazione.
È un libro esclusivo, che sa regalare perle rare in modo genuino, senza troppi fronzoli. A tal proposito concludo con una delle frasi che a mio parere rende meglio l’essenza di questo romanzo.

“Il bello è ciò che cogliamo mentre sta passando. È l’effimera configurazione delle cose nel momento in cui ne vedi insieme la bellezza e la morte. [...]. Forse essere vivi è proprio questo: andare alla ricerca degli istanti che muoiono.” 

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